di Cristina La Bella
Quale miglior modo per conoscere un autore se non quello di assaporare i suoi versi? Divorarli con voracità, farli propri. Non sarete più gli stessi dopo aver letto l’opera di Alda Merini, tra le più grandi poetesse del Novecento, costretta fin da giovane a combattere contro dei disturbi psichici per i quali ha dovuto subire lunghi periodi di ricovero. È una scrittura la sua che si fa carne, che canta la pienezza della vita, festa di amore ma anche di dolore, che solo l’artista può cogliere. Sulle orme della poetessa greca Saffo (VII-VI secolo) si è sempre mossa la cara Alda: il libro «La pazza della porta accanto», edito da Bompiani, ne è una mirabile prova. Il filo conduttore: l’eros, assieme alla malattia. «Quella croce senza giustizia che è stato il mio manicomio non ha fatto che rivelarmi la grande potenza della vita», le parole della poetessa, anima lacerata nel profondo.
“E allora il poeta deve parlare, deve prendere questa materia incandescente che è la vita di tutti i giorni, e farne oro colato… Ora la poesia dovrebbe essere un fenomeno un po’ più extraconiugale, diciamo un fenomeno collettivo. Per carità, non tutti hanno voglia, quando tornano dal lavoro, di leggersi i poeti, che Dio ce ne guardi. Però la poesia educa il cuore, la poesia fa la vita, riempie magari certe brutte lacune, alle volte anche la fame, la sete, il sonno. Magari anche la ferita di un grande amore, un amore che è finito, oppure un amore che potrebbe nascere”, spiega in «La pazza della porta accanto» Alda Merini. Ha iniziato a scrivere molto giovane, fuori da qualsiasi circolo letterario. Al 1965 il primo crollo psichico che spinse il marito a farla internare in manicomio, dove è rimasta per ben sette anni. Purtroppo lì la Merini ha sperimentato durissime condizioni di violenza. Proprio la malattia l’ha portata a denunciare aspramente gli abusi dell’istituzione manicomiale: ne è venuta fuori una poesia che è a meta strada tra il martirio e la redenzione, la follia e la lucidità.
Leggendo le pagine de «La pazza della porta accanto» si coglie la libertà di spirito, ma anche quello che la Merini stessa pensava del ruolo del poeta: una figura, la sola, in grado di cogliere le verità assolute. Testimone, spesso maltrattato, del suo tempo. I primi riconoscimenti per la Merini negli anni ’80, grazie ad un’amica, l’italianista Maria Corti. Sono stati mesi fecondi per lei: sono uscite raccolte meravigliose come «Fiore di poesia» e prose quali «L’altra verità. Diario di una diversa».
Ha sempre avuto una sete insaziabile d’amore Alda Merini. Sentimento vissuto ora in modo drammatico ora sensuale. Non solo: non di rado l’esperienza ospedaliera è stata affrontata in maniera non diretta, ma simbolica. Il manicomio è sempre stato protagonista indiscusso dei suoi versi. E il linguaggio suo coglie la disarmonia, le dissonanze del mondo: «La pazza della porta accanto» sfrutta immagini giustapposte, nitide, ma fortissime. Ci si perde in questo libro in cui l’autrice mette a nudo sé stessa. Senza pudori, senza ipocrisie. I versi sono liberi da schemi, da imposizioni programmatiche, che riflettono appunto l’indole della scrittrice. La prosa però pure è musicale, ha un ritmo vigoroso. «Un pianoforte con un tasto rotto» direbbe Simone Cristicchi, che ha dedicato al sottosuolo dei manicomi una delle sue canzoni più intense. Ed è proprio in quella nota che non torna che si percepisce tutta l’autenticità della poesia di Alda Merini.
Alda Merini
La pazza della porta accanto
Bompiani, 2017