di Cristina La Bella
«È un libro che mi porto dietro da alcuni anni, ogni tanto scrivevo una pagina, cioè una città. Ma tutte queste pagine insieme non facevano ancora un libro. Un libro (io credo) è un qualcosa con un principio e una fine (anche se non è un romanzo in senso stretto), è uno spazio in cui il lettore deve entrare, girare, magari perdersi, ma a un certo punto deve trovare un’uscita, o magari parecchie uscite, la possibilità di aprirsi una strada per venirne fuori». Così Italo Calvino racconta il lavoro di montaggio delle diverse realtà, nate dunque disaggregate, protagoniste di uno dei libri più belli del Novecento, «Le città invisibili». Il volume è uscito presso Einaudi nel 1972, ma stando agli autografi, l’autore avrebbe cominciato a lavorarci nell’estate del 1970. Un’opera meravigliosa che ha ispirato diversi artisti e illustratori: basti pensare alla mostra “Invisible Cities” (2012) al Massachusetts Museum of Contemporary Art.
Italo Calvino non si è limitato ad inventare ciascuna città, ha scelto di presentarle all’interno di una riscrittura del «Milione» di Marco Polo e Rustichello da Pisa. Come se le descrizioni presenti nel libro fossero dei resoconti di viaggio, delle svariate visite espresse a voce da Polo a Kublain Kan, l’imperatore dei Tartari. L’interesse dello scrittore per «Il Milione» non deve stupire: nel 1960 Calvino si era trovato a scrivere la bozza di un copione cinematografico, che mai sarebbe diventato una sceneggiatura, per un film che aveva in mente Mario Monicelli. Da una passione, una tenera ossessione, è venuto fuori un piccolo gioiello della letteratura italiana e non solo. Le «città invisibili» è un viaggio sotto il segno della visionarietà. Una mappa che comprende sia il mondo reale che quello mentale. Città esistenti, come Costantinopoli e Los Angeles (il lettore le riconosce facilmente), traspaiono dietro quelle immaginarie. Hanno esotici nomi di donna.
Le città «sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, come spiegano tutti i libri di storia dell’economia, ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi. Il mio libro s’apre e si chiude su immagini di città felici che continuamente prendono forma e svaniscono, nascoste nelle città infelici», si legge nel libro. Attraverso ciascuna città si affronta un problema, ci si affaccia su un tema. La prima parte del libro ruota attorno a due categorie, quella della memoria e quella del desiderio. A far da spartiacque il capitolo quinto, occupato dalle «città sottili», quelle leggere, in cui sembra più vantaggioso vivere, ma che ‘ingloba’ di fatto anche «Le città dei morti». I capitoli finali del volume mostrano le contraddizioni della vita umana: le megalopoli disumanizzate, le «città continue». Si avverte però una flebile speranza nelle «città nascoste», l’ultima sezione del libro.
Il volume è costituito da 9 capitali. Sono ben 55 poemetti in prosa; descrizioni che si snodano in 11 serie, ciascuna con un titolo specifico. Il libro fa parte del periodo combinatorio dell’autore, dove è palese l’influenza della semiotica e dello strutturalismo. Nel 1967 lo scrittore aveva tradotto I fiori blu di Raymond Queneau, manifesto dell’Oulipo (in italiano Laboratorio di Letteratura potenziale), un movimento letterario francese che applicava i procedimenti della matematica all’analisi dei testi letterari. E presenta una struttura complessa «Le città invisibili», che riflette pienamente quel che Italo Calvino intimamente pensava: la letteratura occorre all’uomo, gli serve a trovare (e dare) un ordine nel caos. Anzi, come dice Marco Polo nelle battute conclusive del libro «a cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio».
Italo Calvino
Le città invisibili
Mondadori, 2016