Di Giusy Laganà
“Imparerai che contrastarla serve a poco. Ma non ti inginocchierai di fronte a essa. Non le offrirai ricordi e oggetti come agnelli sacrificali”.
“Il sangue della montagna” di Massimo Maugeri, pubblicato da La nave di Teseo, è un meraviglioso viaggio introspettivo dove, la metafora dell’eruzione vulcanica come processo di fuoriuscita all’esterno di qualcosa che arde all’interno di noi, diventa spunto di riflessione e storia coinvolgente. La crisi d’identità, il rapporto con le problematiche esistenziali e quelle relazionali, la crisi economica, sono elementi ricorrenti nella produzione narrativa dell’autore, riscontrabili anche in questo romanzo, dove si aggiungono anche questioni connesse al rapporto uomo/natura. Chi siamo? Dove stiamo andando? Come combattiamo, o conviviamo, con i nostri “fantasmi”?
Ho avuto il piacere e l’opportunità di intervistare Massimo Maugeri proprio in occasione dell’uscita del libro:
- Lo scorso settembre è uscito il tuo nuovo libro “Il sangue della Montagna”, pubblicato da La nave di Teseo. Il nucleo caldo di questo nuovo libro sono i drammi famigliari, dove follia e tema del doppio si intrecciano inesorabilmente. Quando è nata l’ispirazione per questa nuova storia?
L’idea che sta alla base di questo romanzo risale a parecchi anni fa. Avevo il desiderio di scrivere una storia ambientata sulla mia Montagna, sull’Etna. Andando a cercare i primi file in cui avevo abbozzato le prime pagine mi sono accorto, con sorpresa, che risalgono addirittura al 2012. Stiamo parlando, dunque, di una storia che mi accompagna da molti anni è che ho continuato a scrivere (in concomitanza con altri testi) con tenacia e con la lentezza inesorabile di una colata lavica, giusto per rimanere in tema. Sono partito da una domanda rivolto a me stesso: cosa significa nascere, crescere e vivere su un vulcano che è in perenne stato di attività? Quali meccanismi possono scattare? Essendo io stesso nato e cresciuto da queste parti (dove continuo a risiedere) ritenevo di avere la possibilità di ribaltare queste domande nell’ambito di una produzione narrativa stimolante. A quelle domande, poi, se ne è aggiunta un’altra (dettata dalla crisi economica sempre più efferata): perché non possiamo sperare in un sistema economico più “umano” di quello con cui abbiamo fatto, e stiamo facendo, i conti? Questa domanda ha dato la stura al secondo filone narrativo di questo romanzo.
- I protagonisti, Marco Cersi e Paola Veltrami, entrambi quarantenni, vivono una vera e propria crisi d’identità. Le loro due vite s’incontrano a causa della sparizione di un vecchio intagliatore di pietra lavica, amante della poesia: don Vito. Cosa accomuna queste tre esistenze?
Soprattutto l’amore, o forse l’ossessione, per la parola e per la scrittura (sebbene per ragioni differenti). Don Vito, oltre a essere un intagliatore di pietra lavica, è un grande amante della poesia. Ama declamare versi in siciliano, molti dei quali ispirati dalla Montagna, con grande capacità istrionica. Paola Veltrami, vedova, docente di letteratura italiana (con la passione per gli studi economici e una difficilissima relazione da gestire con la figlia) ne rimane colpita e propone a don Vito di usare questi versi nell’ambito di una produzione dolciaria fondata sulla realizzazione di sfoglie in pasta reale contenenti, appunto, questi versi poetici “unici” (lei li chiama “versi da mangiare”). Marco Cersi, per contrastare la crisi d’identità a cui hai fatto cenno nella domanda, tiene da anni una sorta di diario intitolato “Riflessioni estemporanee di un pragmatico sognatore”. E la stessa Paola finirà per fare ricorso alla scrittura come elemento imprescindibile della propria esistenza.
- Quanto e come la nuova eruzione vulcanica diventa metafora del peso dei problemi di Marco e Paola? Quanto il fluire incandescente della lava li trasforma e induce il cambiamento?
Nell’ambito della storia si fa riferimento a diverse eruzioni che, in un modo o nell’altro, influenzeranno (a volte in maniera determinante) l’esistenza di Marco e Paola. Dal punto di vista metaforico potremmo considerare l’eruzione vulcanica come un processo di fuoriuscita all’esterno di qualcosa che arde all’interno di noi: così come ogni nuova eruzione vulcanica tende a stratificarsi su quelle precedenti, raggrumandosi, e – nel tempo, negli anni – determinando una sorta di metamorfosi (anche a livello paesaggistico), analogamente le esperienze della vita, i traumi, le problematiche, anche le “cose belle” che possono capitarci… ci forgiano, ci cambiano. È così anche per questi personaggi, ma credo valga per tutti.
- Fondamentale in questo romanzo è il ruolo della scrittura metaletteraria, in che modo riesce a farne una storia coinvolgente e sorprendente che interessa un arco temporale ampio, dal 1886 fino ai nostri giorni?
La scrittura metaletteraria è una delle componenti che caratterizzano la mia produzione narrativa. È qualcosa che mi ha sempre affascinato anche da lettore. Qual è il ruolo della scrittura? In che modo può essere determinante nella vita degli individui? Nell’ambito di questo romanzo, come ho in parte accennato in una delle risposte precedenti, la scrittura si erge a ruolo di protagonista, come la Montagna e le eruzioni vulcaniche. Ci sono le poesie di don Vito, il diario di Marco Cersi. La stessa Paola Veltrami si butterà a capofitto nella scrittura nel tentativo di ricomporre pezzi di esistenze che sembrano sfaldarsi. E l’ampio arco temporale della narrazione (dal 1886 – data di un’eruzione storica – agli anni Settanta, dal 1983 al 2013, fino ai nostri giorni), trova un trait d’union proprio nella parola scritta, così come nelle colate laviche prese in considerazione. Credo che il lettore si ritroverà immerso tra le pieghe di questa storia con un coinvolgimento empatico ed emozionale molto forte. È questa l’esperienza che mi è stata riportata da chi ha già avuto modo di leggere il libro.
- L’incontro tra Marco e Paola riapre dibattiti su tematiche contemporanee: il rapporto uomo-natura; la crisi economica; il rapporto tra uomo e mercato. Questi appaiono essere filoni ricorrenti in quello che scrivi. Quanto questi elementi diventano costanti spunti di riflessione per la tua visione del mondo?
Posso dirti che il percorso di scrittura che ho intrapreso mi porta ad affrontare problematiche che mi stanno molto a cuore. Alcune hanno natura atavica, altre sono più ancorate ad elementi connessi alla nostra contemporaneità. In realtà la mia non è nemmeno una scelta. È proprio la mia scrittura che va in questa direzione. Dunque credo sia una mia esigenza. Raccontare storie, per me, diventa anche occasione per riflettere su queste tematiche nel tentativo di affrontarle non tanto per dare risposte, ma per offrire ulteriori occasioni di riflessione. A me stesso, in primis. E, naturalmente, ai lettori. La crisi d’identità, dunque; il rapporto con le problematiche esistenziali e quelle relazionali, la crisi economica, sono elementi ricorrenti nella mia produzione narrativa e sono riscontrabili anche in questo romanzo, dove si aggiungono anche questioni connesse al rapporto uomo/natura. Chi siamo? Dove stiamo andando? Come combattiamo, o conviviamo, con i nostri “fantasmi”? Come affrontiamo le inevitabili difficoltà ad interagire con gli altri, a partire dai nostri cari? In che modo il sistema economico in cui ci ritroviamo immersi condiziona le nostre esistenze? E fino a che punto ne siamo consapevoli? Come ci relazioniamo con l’ambiente circostante e con la natura? Fino a che punto possiamo pensare di opporci a essa, di asservirla ai nostri bisogni, ai nostri desideri? “Il sangue della Montagna” affronta tutto ciò nell’ambito di una storia a “largo respiro”.
- Il sangue della montagna diventa un modo per far esplodere una crisi dormiente. Come il vulcano, anche i fantasmi dell’uomo di risvegliano o sono portati alla luce, se così possiamo dire, da crisi o eventi esterni. Quanto il sangue dell’Etna riesce a far sgorgare quanto veniva nascosto e quanto riesce a bruciare tutto quello che doveva essere dimenticato o represso?
Il sangue della Montagna è innanzitutto il magma che sgorga fuoriuscendo dalle viscere della Terra. È rosso e caldo, come il sangue. E se la Natura è viva, se la Terra è viva, questo flusso rovente che proviene dall’interno del nostro pianeta, se ci pensi, diventa un simbolo potentissimo. E – d’altra parte – se il magma che fuoriesce può avere un effetto devastante e distruttivo, da un altro punto di vista può anche essere legato al concetto di creazione. E in effetti il materiale vulcanico offre varie possibilità di utilizzo. Colgo l’occasione per tornare al personaggio di don Vito Terrazza, il vecchio intagliatore. Quando lui modella la pietra lavica parte dal presupposto che quel materiale proviene, appunto, dalle profondità della Terra e, dunque, in certo senso, è pulsante di vita, essendo il prodotto di qualcosa di dinamico (di vitale, appunto). Dunque don Vito si mette ad “ascoltare” la pietra (ascoltare col cuore, dice) di modo che possa percepire quella entità che, a suo dire, pulsa già al suo interno. Il suo lavoro, a quel punto, diventa quello di togliere il materiale magmatico in eccesso e portare alla luce quel qualcosa che esiste già. Affrancare (dunque liberare) dalla roccia: è questa la frase che usa per spiegare il processo in questione. In un certo senso non è altro che una metafora della creazione artistica.
- Come autore e collaboratore di pagine culturali di magazine e quotidiani, quanto è fondamentale oggi, in una società “liquida” come diceva Bauman, riuscire a incontrare il proprio “sangue della montagna”?
Se ho ben colto il senso della domanda, posso dirti che ritengo fondamentale fare del proprio meglio per andare in profondità, sebbene le nostre vite “sempre in corsa” e le dinamiche stesse della società contemporanea ci spingano spesse volte ad accontentarci della superficialità. Oggi, ancor più che in passato, credo sia importante “guardare oltre la pietra” (per dirla con don Vito Terrazza).
- Quanto tutto quello che vive in superficie è vicino a tutto quello che rimane sotterraneo per i due protagonisti del tuo ultimo libro?
A volte, purtroppo, è molto meno vicino di quanto possa sembrare. Quando prima facevo riferimento all’importanza di combattere o convivere con i nostri “fantasmi”, mi riferivo sostanzialmente a questo. Riporto uno stralcio del romanzo, dal punto di vista di Paola Veltrami: «I fantasmi esistono. E sono più numerosi delle stelle. Esistono all’ombra dei ricordi, tra le pieghe delle esperienze, nei dolori per le mancanze, sopra l’onda dei rimpianti. Si nascondono sotto il peso delle delusioni, tra i dubbi di un futuro nebuloso, dentro gli spasmi scatenati dalle nostre ansie, nelle emozioni suscitate da oggetti custoditi come reliquie. Vivono nelle storie inventate e in quelle reali. In quelle scritte e in quelle lette. Avrei voluto dirgli che spendiamo la nostra vita a generare fantasmi e che forse, una volta o l’altra, avremmo dovuto avere il coraggio di guardarli in faccia anziché relegarli ai margini della nostra visuale.»
- La precarietà e il difficile equilibrio tra elementi diversi. Si combatte tra amore e morte, luce e ombra, sogno e realtà, razionalità e follia. Quanto gioca un ruolo importante il concetto di “rassegnazione”?
La “rassegnazione”, a volte, segna il passo a una sconfitta evitabile. Altre volte può essere considerata come un male necessario. Marco Cersi, per esempio, non sopporta l’atteggiamento di suo padre e del nonno materno allorquando assistono immobili e, appunto, “rassegnati” alla scena della propria casa che sta per essere ricoperta dal fronte lavico. Il nonno ha addirittura deciso di lasciare il mobilio all’interno, senza mettere in atto un trasloco. Non solo è rassegnato, ma va oltre: assume un atteggiamento quasi “idolatrico” nei confronti del vulcano, della Montagna, che – dal suo punto di vista – “tutto dà e tutto toglie, tutto toglie e tutto dà”. Per Marco è un atteggiamento intollerabile. È per questo, e per via di un altro trauma che subisce da ragazzino, che sviluppa una vera e propria forma di avversione nei confronti della Montagna, al punto di tentare di imbastire una sorta di battaglia contro di essa.
- Ma fino a che punto è possibile opporre resistenza?
Ritorno ancora al personaggio di Paola Veltrami proponendo un ulteriore stralcio del libro, in tema con il concetto di “rassegnazione” (Paola, tra le altre cose, ha una sorta di ossessione per le citazioni. Le raccoglie in quaderni e taccuini, segnandole per ordine alfabetico): «Aggiunse che comunque anch’egli era d’accordo sul fatto che non bisognasse arrendersi mai. Mentre sollevavo il pollice in segno di approvazione, mi venne in mente un’altra frase celebre attribuita – a seconda dei casi – a Taylor Swift e a Marilyn Monroe: “Arrendersi non significa sempre essere deboli; a volte significa essere forti abbastanza da lasciar perdere.” Preferii non pronunciarla».
- Massimo, tu che sei esperto di comunicazione sia radiofonica che autore non solo di storie ma anche di Letteratitudine, quanto oggi è fondamentale saper comunicare?
Se puntiamo a interagire con gli altri, credo sia necessario. È obiettivamente difficile riuscire a districarsi nella bolgia mediatica in cui più o meno tutti noi, volenti o nolenti, ci ritroviamo immersi. Da qui la necessità di dotare la propria “voce” di una peculiarità che possa renderla in qualche modo riconoscibile. Dobbiamo sforzarci di migliorare la nostra capacità di comunicazione, senza però rinunciare alle necessarie oasi di silenzio.
- Cosa vorresti comunicare ai tuoi lettori in una parola? Scegline una che rappresenti il tuo libro e che sia una parola chiave per invitarli a leggerti.
Se devo sceglierne una sola, scelgo la seguente: emozione.
Massimo Maugeri
Il sangue della montagna
La nave di Teseo, 2021