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“Il Leone di Svevia” e il fantasy: la storia che non conoscevi

Intervista a Roberto Genovesi, il «maestro del fantasy storico» 

A cura di Cristina La Bella 

Su «Aforismi» l’intervista esclusiva a Roberto Genovesi, scrittore e giornalista italiano, nonché direttore artistico di «Cartoons on the Bay», il festival internazionale dell’animazione crossmediale della Rai, e responsabile della struttura Progetti Speciali di Rai Com. Tredici romanzi per ventitre edizioni e traduzioni in Spagna, Portogallo e Gran Bretagna. Autore tv, ma anche docente di Teoria e Tecnica del Linguaggi Crossmediali in diverse università. Genovesi ha vinto il Premio Lucini per il giornalismo e due volte il Premio Italia per la saggistica. Tra i suoi ultimi libri «I due imperatori. La saga della legione occulta» (2019) e «I guardiani di Roma. La saga della legione occulta» (2020), editi ambedue da Newton Compton Editori e il più recente «Il Leone di Svevia. Francesco II, l’Imperatore che sfidò la Chiesa», uscito il 17 febbraio.

D: Come ci si sente ad essere definiti “Il Maestro del fantasy storico”? 

R: «Maestro è chi ha imparato tutto e insegna agli altri quindi io non mi sento affatto un maestro perché ogni giorno cerco di imparare qualcosa, soprattutto da scrittori più bravi di me e ce ne sono davvero tanti». 

D: Ma ogni tuo romanzo vende ormai migliaia di copie. Come giustifichi questo innegabile successo? 

R: «È difficile scrivere qualcosa di nuovo che non sia già stato scritto da altri. Io dico sempre ai miei studenti che dopo Bibbia, Odissea, Divina Commedia non è più possibile scrivere qualcosa che non sia già stato scritto. Io quando scrivo un nuovo romanzo cerco di mettermi dalla parte del lettore e mi chiedo cosa vorrei leggere, cosa potrebbe spingermi a fermarmi su una storia che non abbia già sentito. La formula credo sia quella del come scrivere una nuova storia in modo da spiazzare chi legge. Affrontare un argomento sorprendendo chi non si aspetta che possa essere raccontato in modo nuovo». 

D: È la formula usata anche per «Il Leone di Svevia. Francesco II, l’Imperatore che sfidò la Chiesa» che è uscito in questi giorni per la Newton Compton, ormai la tua casa editrice esclusiva da molti anni? 

R: «Scrivere l’ennesima biografia romanzata su Federico di Svevia sarebbe stato inutile e presuntuoso. Io ho cercato di colmare i vuoti lasciati dalla Storia per raccontare le vicende dell’uomo e provare a immaginare i pensieri di un sovrano che da bambino era stato abbandonato per le strade di Palermo, che da ragazzo era diventato re e da uomo era diventato l’imperatore più influente e temuto dell’Occidente». 

D: Soprattutto temuto… 

R: «Si, da nemici ma anche da amici che a un certo punto hanno visto quanto potessero essere ingombranti la sua personalità e le sue idee rivoluzionarie. Federico era un uomo curioso e attento che passava molto del suo tempo a studiare, a confrontarsi con idee diverse dalle sue perché aveva capito che con il dialogo e il confronto si può solo crescere. Il suo rapporto con il mondo cristiano e con quello musulmano, con la scienza e la filosofia, con la matematica e con l’astronomia è sempre stato basato sulla convinzione che per quanto si possa essere potenti c’è sempre qualcosa che sfugge e che merita l’attenzione di un sovrano che potrebbe non dover chiedere più nulla a nessuno». 

D: Nel tuo romanzo parli di Federico bambino e adulto, sovrano e amante, soldato e diplomatico. Una personalità alle volte contraddittoria che ha dovuto scegliere tra il dialogo e la guerra… 

R: «Non parlerei di contraddizione. Piuttosto di capacità di valutare i propri limiti e di saper gestire e alimentare la sete di conoscenza e la fragilità dei sentimenti. Aveva capito che sedere su un trono non significava possedere il dono dell’onniscienza o la perfezione. Voleva capire cosa pensassero e volessero i suoi sudditi e cercava di portare avanti quelle riforme che avrebbero reso il mondo migliore e meno suddito dei poteri consolidati a cominciare da quello secolare della Chiesa. Quanto alla guerra, la fece solo quando si rese strettamente necessario ma non dimentichiamo che fu l’unico capace di stringere un patto con un mondo, quello musulmano, che dalle sue parti veniva visto come l’espressione del demonio». 

D: Di solito scrivi romanzi fantasy storico, ma questo è un romanzo storico senza digressioni fantastiche. È stato più difficile scriverlo senza l’uso del Deus ex machina del fantasy?

R: «Direi di no. È stato diverso. Come fu diverso scrivere ‘L’Angelo di Mauthausen’ che era anch’esso un romanzo storico puro. E poi il termine fantastico si può applicare al contenuto ma anche alla cifra narrativa. È una questione non solo di storia ma anche e soprattutto di atmosfere». 

D: I tuoi romanzi giocano molto sugli archetipi e su formule narrative epiche: 

R: «Gli archetipi sono le fondamenta del racconto. Possono essere rimodellati ma restano le formule primarie di quelle storie che parlano all’inconscio del lettore e al ricordo che resta impresso nel dna della specie umana dai suoi albori. Raccontare facendo uso degli archetipi è un po’ lavorare come uno psicanalista che cerca di far riaffiorare nella mente del paziente ricordi che teneva sopiti. Quando finiamo di vedere un film o di leggere un libro e ci sentiamo esaltati e soddisfatti è perché quel prodotto narrativo ha saputo bussare alle porte dei nostri ricordi ancestrali». 

D: In realtà tu scrivi romanzi come fossero dei film… Sembra che siano costruiti apposta per diventare una sceneggiatura… 

R: «Io mi rivolgo a un pubblico abituato a frequentare quotidianamente le formule narrative delle serie tv e dei videogiochi che sono prodotti creativi costruiti su ritmi narrativi sincopati che poco spazio lasciano alle pause. Non mi piace la narrazione didascalica e i miei lettori sanno esattamente cosa aspettarsi quando affrontano un mio romanzo». 

D: Cosa ti ha lasciato Federico Di Svevia quando hai finito il romanzo? 

R: «Io ho sempre amato molto la figura di Federico II. Era sempre alla ricerca di qualcosa che potesse arricchire la sua conoscenza perché, nonostante il ruolo che aveva, riteneva che ciò che sapeva era solo minima cosa rispetto alle sterminate praterie di ciò che non conosceva. La sua infanzia a contatto con culture diverse per le strade di Palermo, quando viveva praticamente da accattone, lo ha certamente aiutato a costruire una personalità aperta. Questo è l’aspetto del suo carattere che mi ha sempre affascinato immensamente. E scrivere di lui mi ha fatto capire ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno, che i maestri non esistono e che fino all’ultimo possiamo ancora imparare qualcosa anche da coloro che apparentemente sembrerebbero non poterci insegnare nulla». 

Roberto Genovesi
Il leone di Svevia. Federico II, l’imperatore che sfidò la Chiesa
Newton Compton Editori, 2022

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