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“I lucci della via Lago” e come riconnetterci con la nostra infanzia

Di Giuseppe Festa

Cosa può raccontarci una tartaruga? Molto, se hai vissuto con lei da bambino e la ritrovi dopo quarant’anni. Mi è successo qualche tempo fa, rientrando nella vecchia casa dei miei nonni: negli anni 80 erano i custodi di un’antica villa padronale sul lago d’Iseo, dove ho trascorso tutte le estati della mia infanzia. Estati indimenticabili durante le quali mi scatenavo all’aria aperta dopo i lunghi inverni trascorsi a Milano.

Molti anni dopo, durante il primo lockdown, ho deciso di scrivere un romanzo ispirato ai ragazzi della via Lago, il gruppo di amici con cui trascorrevo le mie giornate, attingendo ai ricordi di quei primi anni ’80. Per girare il booktrailer del libro, l’editore ha chiesto ai proprietari dell’antica villa il permesso di girare delle immagini nella location originale della storia. Tornare fra le mura della casa dei miei nonni dopo quasi quarant’anni è stato un terremoto di emozioni. Eppure, la gioia più grande non me l’ha data la casa, ma quello che noi chiamavamo Il giardino delle tartarughe. Quando ero bambino vi abitavano due femmine di testudo hermanni, la comune tartaruga di terra, che già allora erano delle attempate zitelle, visto che abitavano in quel luogo dai primi anni del ‘900. Con mia enorme sorpresa le ho trovate ancora lì, nello stesso punto in cui amavano riposare quando ero bambino, all’ombra di una siepe di alloro che separa il giardino dalla via Lago. Le ho sollevate entrambe con cura, come facevo allora, guardandole negli occhi. E mi sono commosso fino alle lacrime. Eccole le testimoni della mia infanzia! Di più: le testimoni dei cambiamenti che hanno attraversato un secolo intero. Certo, nel tranquillo giardino delle tartarughe non dev’essere successo granché negli ultimi centoventi anni, ma oltre la siepe di alloro ne è passata di vita! Quante cose devono aver sentito le loro orecchie avvizzite: dagli zoccoli dei cavalli alle prime autovetture; dal cigolante remo dei pescatori al motore delle motonavi; dal grido dei rondoni al rombo degli aerei, fonte di meraviglia e di terrore, col loro carico di bombe nelle Grandi Guerre. Ma anche le voci di generazioni di bambini che hanno giocato in via Lago: all’inizio in dialetto, poi dialetto misto a qualche parola in italiano, poi in italiano misto a qualche parola di dialetto. E il primo squillo di uno smartphone, con sempre meno voci. Fino al silenzio. Già, perché oggi non ci sono più bambini in via lago, le chat hanno sostituito i giochi di strada. Quanto vorrei che le mie care amiche tartarughe potessero risentire, un giorno, quelle grida di vitalità feroce, i giochi spericolati, i tuffi nel lago, le pescate notturne.

È curioso: in questo tempo di massima connessione, non siamo mai stati così disconnessi. Dalla realtà, da noi stessi, dalla natura. L’epoca del virtuale priva i nostri figli della gioia di “sporcarsi” le mani di terra, di bosco, di cielo. Da educatore ambientale, spesso mi chiedo come potremo cambiare davvero il nostro impatto sul Pianeta, modificando le nostre abitudini, se non proviamo una vera empatia con quello che ci circonda? Conosciamo ciò che studiamo, ma proteggiamo solo ciò che amiamo. E le esperienze che facciamo da bambini sono l’humus in cui fra crescere i sentimenti per la Terra. Ne sono sempre più convinto: se non avessi trascorso quelle estati selvagge in riva al lago, non mi sarei mai impegnato così a fondo nella conservazione della natura. I semi del mio rispetto verso le altre creature sono stati piantati lì, sebbene non sempre attraverso esperienze idilliache o bucoliche. Basti pensare che il più grande insegnamento sui temi ambientali, l’ho ricevuto da mio nonno durante un atto di bracconaggio. Avevo sette anni e lui mi portò a pescare di notte durante la cosiddetta frega delle alborelle. Avveniva una sola volta all’anno, nel mese di giugno: milioni di piccoli pesci argentati venivano a riva e si sfregavano la pancia sul fondo per deporre le uova. Ce n’erano così tanti che, puntando una torcia nel lago, il fondo ne era completamente coperto. Ovviamente era illegale pescare le alborelle in quel particolare momento, ma mio nonno approfittava della sua condizione di custode di un parco privato per non essere scoperto dalle guardie.

Ricordo perfettamente la mia euforia, l’eccitazione dei momenti precedenti alla pesca, mentre mio nonno, appena percettibile nell’oscurità, preparava una rete quadrata da gettare in acqua. Al primo lancio pescammo così tante alborelle da riempire mezzo secchio in un colpo solo. Io saltavo dalla gioia. Mi aspettavo di trascorrere la notte a tirar fuori dall’acqua quintali di pesce, e invece mio nonno, dopo quel singolo lancio, mi gelò. «Andiamo. Il resto è del lago». Non potevo crederci. «Bisogna prendere solo quello che ci serve, niente di più», aggiunse ruvido. Forse è proprio dalla saggezza del passato che dobbiamo attingere per affrontare il presente e guardare al futuro. In fondo, il più bel discorso ecologico della storia – secondo le Nazioni Unite – è stato pronunciato da Capo Seath in risposta alla richiesta del Presidente degli Stati Uniti di comprare la terra della sua tribù. Era il 1854, quando la questione ambientale era lontana anni luce dalla nostra visione di occidentali “illuminati”. «Come è possibile comprare o vendere il cielo, il tepore della terra? L’idea è strana per noi» disse Seath nel suo elegante idioma natio. «Se noi non possediamo la freschezza dell’aria e lo scintillio dell’acqua, come potete voi comprarli? Non so. I nostri modi sono diversi dai vostri. La vista delle vostre città provoca dolore agli occhi dell’uomo rosso. Ma forse è perché io sono un selvaggio e non capisco […] Anche i bianchi passeranno, forse prima di tutte le altre tribù: continuate a contaminare il vostro letto e una notte soffocherete nei vostri stessi rifiuti. Tutte le cose sono connesse, come il sangue che unisce una famiglia. Se l’uomo sputa sulla terra, egli sputa su se stesso». Mio nonno, ne sono certo, sarebbe stato d’accordo con lui.

Giuseppe Festa ha preso spunto per questa riflessione dal suo romanzo “I lucci della via Lago”, un romanzo di formazione dove avventura, amore e mistero si intrecciano in una breve estate impazzita, quella dei tredici anni: l’estate in cui tutto diventa possibile.

Giuseppe Festa
I lucci della via Lago
Salani

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