Di Gabriele Rossi
Il 28 settembre 1944, nelle strade di Roma occupata dagli Alleati, un evento inaspettato cambiò la vita di Luigi Bartolini, noto pittore e scrittore. Mentre entrava in un negozio, in cerca di lucido per le sue scarpe, Bartolini poggiò incautamente la sua amata bicicletta ad un muro. Il risultato fu che, uscito dal negozio, questa non c’era più, era stata rubata.
In quel periodo, in cui le automobili erano rare e il carburante severamente razionato, la bicicletta rappresentava un bene di inestimabile valore. Era quasi vitale per muoversi agevolmente, soprattutto in un’epoca in cui l’Italia settentrionale, la principale produttrice di biciclette, si trovava divisa da una barriera di fuoco, con eserciti stranieri che si affrontavano nel cuore del paese.
Bartolini, sconvolto, decise di non rimanere a braccia conserte. Si mise a battere i vicoli, quegli angoli che sapeva essere nidi di ladri. La sua determinazione, alimentata dal desiderio di ritrovare ciò che gli era stato sottratto, venne premiata. Decide dunque di celebrare il fatto con un romanzo: Ladri di biciclette. Ma il momento non è dei più propizi per il mercato librario. Il volumetto sarebbe potuto passare inosservato, non fosse che una copia venne regalata a Cesare Zavattini, influente intellettuale dell’epoca. Affascinato dalla storia di Bartolini, convinse il celebre regista Vittorio De Sica a trasporre questa vicenda in un film. E così, il modesto romanzo di Bartolini, intitolato “Ladri di biciclette”, si trasformò in uno dei capolavori più memorabili della storia del cinema italiano.
Il film, inserito nel contesto del neorealismo italiano, colpì il pubblico con la sua rappresentazione cruda e realistica della società postbellica. Ma mentre il mondo celebrava il lavoro di De Sica come un trionfo artistico, il povero Bartolini si sentiva tradito. Era convinto che la trasposizione cinematografica avesse stravolto e snaturato la sua opera originale.
Così, la metafora del gioco degli specchi alla Borges divenne una realtà vivente. Il romanzo oscuro e sconosciuto, “Ladri di biciclette”, venne trasformato in un film celebre che dominò le sale cinematografiche. Un’opera che si distaccava completamente dalla visione di Bartolini, lasciandolo con un amaro senso di disillusione.
Ma questa storia non si limita a un furto e a un film di successo. È il punto di partenza per un profondo viaggio nell’Italia occupata, immersa in una guerra civile che dilaniava l’anima del paese tra il 1943 e il 1945. Un periodo di tormento e conflitto, in cui la patria stessa sembrava essere morta, lasciando una minoranza a schierarsi tra i fronti opposti di questa guerra brutale, come narrato nei libri di Fenoglio.
Tuttavia, la maggioranza della popolazione cercava solo di sopravvivere, osservando passivamente gli eventi che si svolgevano intorno a loro. Era come se si trovassero in uno stato di sospensione, descritto in modo magistrale nel romanzo “La Casa in collina” di Pavese. Gli intellettuali, nel frattempo, cercavano di trovare un senso in tutto ciò attraverso un imponente lavoro di camuffamento e mascheramento.
Gianni Scipione Rossi, giornalista di grande esperienza e studioso della storia contemporanea, ha dedicato il suo ultimo saggio, “Ladri di biciclette”, a questa epoca tormentata. Con l’aiuto di diari, riviste, memorie e film, ha cercato di ricostruire le trame intricanti di un passato doloroso, in cui le ferite della guerra civile non sono ancora state del tutto rimarginate.
Il libro è un invito a fare i conti con il passato, a guardare oltre le maschere e le apparenze, per comprendere appieno il significato di quegli anni bui. Rappresenta anche un tributo a coloro che hanno avuto il coraggio di provare a fare i conti con la memoria riluttante del paese, affrontando le ombre del passato e cercando di illuminare le strade del presente.