Ha lasciato lo Sri Lanka molto tempo fa e giovanissima, non ha ancora terminato il percorso di studi in giurisprudenza e sta già costruendo una carriera di scrittrice. Con il suo romanzo L’unica persona nera nella stanza ha affidato il racconto del percorso che, da bambina che si arrampicava sui tetti a piedi scalzi, l’ha condotta in Italia, in Brianza, a Nova milanese, un paesino dove si sento a casa “perché è lì che sono cresciuta, ma che ora mi va un po’ stretto”.
Il libro raccoglie riflessioni a metà tra la forma saggistica e romanzesca sul trovarsi a essere, appunto, l’unica persona nera nella stanza.
Saggistica perché Uyangoda, con spirito giornalistico, sviscera articoli accademici, di cronaca e sullo stato dell’arte dell’identità delle minoranze, intersecandoli con interviste che ha condotto lei stessa in una riflessione consapevole e che aggiunge qualcosa di prezioso alla conversazione; forma romanzesca, invece, perché la sua prosa ha uno stile fortemente evocativo, sincero e audace.
C’è un capitolo in cui l’autrice descrive i concorsi di bellezza per le seconde generazioni – Miss Italia Sri Lanka, e Miss Italia Africa – che ricorda le atmosfere spesso evocate da Joice Carol Oates. La differenza è che Uyangoda non si ferma lì: compie un passo ulteriore e lo fa con un intento ben preciso, quello di rivendicare l’italianità nei corpi che, nell’immaginario comune, non sono ritenuti canonici: “al centro, su tacchi incerti, giovanissime ragazze provano la camminata: hanno tratti estetici diversissimi tra loro – l’altezza, il colore della pelle, la forma del corpo, le linee del naso e delle labbra che variano in base al punto del continente nero a cui sono legate”.
Essere l’unica persona nera nella stanza significa, secondo Nadeesha Dilshani Uyangoda, rappresentare con una metonimia tutto ciò che è in minoranza; si definisce così: “sono la riforma della cittadinanza, l’immigrazione fuori controllo, i barconi, l’integrazione”. Troppo spesso nero vuol dire straniero, in una falsa dicotomia tra l’etnia e la nazionalità che invece Uyangoda smantella. Nel libro l’autrice non dà mai risposte scontate, e demolisce il razzismo sistemico insito nella cultura e nella lingua una parola alla volta. Il suo ragionamento è in divenire, inizia riflessioni che non devono per forza essere seguite da un punto. L’importante è intavolare la conversazione.
In un capitolo analizza l’aggettivo da affibbiare alla sua pelle, poiché, ci ricorda, ci si trova sempre a doversi definire come qualcosa: passa in scrutinio “nera”, “marrone”, “di colore” e infine parla del più largo e significativo “visible minorities”, minoranze visibili, per individuare i gruppi etnici che risentono maggiormente della razzializzazione della società. Ci rende partecipi dei suoi ragionamenti in maniera trasparente: è come se ci trovassimo tutti a una grande tavola rotonda.
Non ha paura a fare nomi: decostruisce lo pseudofemminismo degli ultimi anni, parla dei rischi dell’attivismo digitale che si ferma a condividere un quadratino nero per supportare la causa antirazzista americana. Chiama le cose con il loro nome: spiega la necessità di iniziare a pronunciare la parola “razzismo” e di problematizzarlo.
Nella sua vita reale Nadeesha Uyangodatuttavia non ha ancora intrapreso l’iter per l’ottenimento della cittadinanza,italiana: «Mi sento italiana e credo che i bambini che sono nati e cresciuti qui dovrebbero poter diventare italiani solo con un atto di volontà: si è italiani se ci si sente italiani. Invece il racconto intorno all’ottenimento della cittadinanza è fatto di meriti, guadagni, storie che devono essere straordinarie e di sacrifici. Il lusso della normalità, della mediocrità perfino, a noi non è concesso. Ecco, questo è un pensiero per il futuro, un’aspirazione legittima: essere e sentirsi giovani normali».
Secondo lei però conclude «Il razzismo, in Italia, c’è ancora: lo subisco ogni giorno tuttavia io sono la mia pelle, i miei capelli, il mio nome, sono le tradizioni dei miei genitori. Ho sfregato via quanto di me era possibile, eppure la razza è rimasta con me – nel mio passaporto che sembrava non superare mai i controlli di ingresso in aeroporto, nelle ispezioni «casuali» oltre le casse automatiche dei supermercati, nel tu dell’impiegato di banca che ritornava al lei col cliente
Per provare a fare un passo avanti anche nel nostro paese una soluzione l’autrice la trova nella proposta di legge sulla cittadinanza del 2017, in cui la cittadinanza la si può ottenere “con un atto di volontà” o se si è nati qui oppure se si ha frequentato la scuola rispetto alla legge attuale in cui invece, un bambino, non avendo la cittadinanza, rischia di crescere con la percezione di non essere italiano.
Infatti “una legge sulla cittadinanza ancora imperniata sullo Ius sanguinis, ripete, non fa che peggiorare la situazione, avvallando l’idea che non ci possano essere neri italiani perché con la cittadinanza si trasmetterebbero anche tratti somatici…”.
Nadeesha Uyangoda
L’ unica persona nera nella stanza
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