Nell’Italia degli anni ’20, segnata dal delitto Matteotti e dalla crescente propaganda fascista, un personaggio singolare e controverso fece parlare di sé: Edgard Laplante, noto come “Cervo Bianco”, sedicente ultimo capo dei pellerossa d’America. In sei mesi, il suo nome fu sinonimo di eccesso, truffa e illusione collettiva, tanto da conquistare l’attenzione delle cronache non criminali dell’epoca.
Un “principe” dai mille inganni
Nato da madre di origine indiana e padre canadese, Laplante non era affatto un principe irochese, ma un uomo che si arrangiava tra spettacoli di piazza, vendite truffaldine e comparsate nel nascente cinema americano. Giunto in Europa, si presentò come ambasciatore della causa nativa americana presso la Società delle Nazioni, ma il suo vero obiettivo era sfruttare l’esotismo della sua figura per arricchirsi.
A Nizza, incontrò la contessa Antonia Khevenhüller e sua madre Melania, nobildonne austriache. Con la sua eloquenza e il fascino da avventuriero, Laplante le convinse di essere un principe esiliato, momentaneamente privo di accesso alle sue ricchezze. Fu così accolto nella loro villa di Fiumicello, nei pressi di Trieste, dove iniziò la sua breve vita da nababbo.
La favola del “mecenate” tra lusso e propaganda
Da giugno a ottobre del 1924, Laplante visse tra Riviera Ligure, Toscana e prestigiosi hotel, organizzando sontuosi banchetti e distribuendo denaro con generosità spettacolare. La stampa lo idolatrava, le folle lo acclamavano, e persino il regime fascista sfruttò la sua figura per promuovere un’immagine di prosperità e consenso. Celebre il suo discorso a Roma, in occasione dell’anniversario della Marcia su Roma, che infiammò le camicie nere.
Tra i suoi momenti più significativi, un busto in porcellana realizzato dalla Richard Ginori, il viaggio in idrovolante a Fiume e l’assegnazione del titolo di “fascista honoris causa”. Nonostante il suo carisma, però, non riuscì a incontrare Mussolini, e Papa Pio XI si limitò a inviargli una foto autografata.
Il declino: denunce e condanne
Il sogno durò poco. Laplante, ormai consumato da una vita di eccessi e affetto da sifilide, si trovò abbandonato dalla contessa Antonia, che lo denunciò insieme al fratello Giorgio per aver dilapidato un patrimonio immenso. Fuggito in Svizzera, fu arrestato e condannato nel 1926 a un anno di carcere. Estradato in Italia, affrontò un nuovo processo a Torino, dove gli furono inflitti cinque anni di reclusione, ridotti a meno di tre.
Durante la detenzione, condivise la cella con l’antifascista Massimo Mila, che raccolse le sue confidenze, successivamente raccontate in un libro di Ernesto Ferrero, L’anno dell’indiano (2001).
Il mito e la grande illusione
Edgard Laplante morì nel 1944 negli Stati Uniti, ma il mito di Cervo Bianco sopravvisse, simbolo di una collettiva fuga dalla realtà. Come scrissero Oreste del Buono e Giorgio Boatti, gli italiani del 1924 “inventarono” questo personaggio per proiettare su di lui un desiderio di fasto e avventura, un antidoto alla mediocrità dell’epoca.
Una storia di illusione e inganno, ma anche di un tempo in cui la necessità di sognare era più forte della realtà.