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Chi era veramente Van Gogh? Genio maledetto oggi oggetto di psicanalisi

Massimo Recalcati nel suo bel saggio Melanconia e creazione in Vincent van Gogh, edito dai tipi di Bollarti-Boringhieri analizza lucidamente senza farne un caso patografico, il grande pittore olandese anche attraverso le maschere create dall’artista per dare una risposta ad una esistenza mistica a volte mancata a volte centrata dentro ai confini della tela

di Mimmo Cacciola

Melanconia e creazione in Vincent van Gogh di Massimo Recalcati (Editore Bollati Boringhieri, Collana Nuova cultura, Pagine 158 illustrate, € 16,00) è, per chi ama le cose della psicanalisi, uno di quei saggi da tenere in libreria o portarsi in tasca nei lunghi viaggi in treno.

In Vincent Van Gogh – leggiamo nel quarto di copertina – la relazione tra esistenza e opera, tra malattia mentale e creazione ha fornito materia a una lunga tradizione interpretativa, soprattutto psicoanalitica. Nessuno però ha saputo, al pari di Massimo Recalcati, mettere in rapporto malinconia e dipinti senza cedere a tentazioni patografiche, nel rispetto pieno dell’autonomia dell’arte. Per nessi illuminanti Recalcati procede dalle radici familiari della sofferenza psicotica di Vincent – venuto al mondo nel primo anniversario della morte del fratellino del quale gli fu imposto il nome – alla scelta di vivere da sradicato la propria indegnità di figlio vicario, alla spinta mistica verso la parola evangelica, fino all’estrema devozione alla pittura. Le maschere del Cristo e del “giapponese” servono a Van Gogh per darsi un’identità di cui si sente privo. I suoi quadri costituiscono lo sforzo estremo di attingere, attraverso la luce e il colore, direttamente all’assoluto, alla Cosa stessa. Ma la consacrazione all’arte, che all’inizio lo aveva salvato dalla malinconia originaria, si rivela ciò che lo fa precipitare negli abissi della follia. Il suo movimento pittorico e biografico dal Nord al Sud lo avvicina troppo al calore incandescente della Luce e in questa prossimità, come nel mito di Icaro, egli finisce per consumarsi”.

Dunque, un pittore assoluto dentro ad una autodistruzione non solo accidentale quanto imposta, voluta, cercata, in ultima analisi abbracciata: in nome del colore, del tratto, della luce che sfugge a quella teoria della percezione che tutti gli artisti bravi, geniali, o meno cercano da sempre.

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