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Con le mie “Gattoparde” per scoprire il segreto dell’immortalità

Di Stefania Aphel Barzini

Come si può non amare la Sicilia? Le sue bellezze, le sue miserie, le sue virtù, i suoi difetti? Che sono poi quelli di tutti noi Italiani perché la Sicilia in piccolo racchiude e riassume tutta l’Italia. Io la amo da sempre, forse perché sono di famiglia siciliana, seppure nata e vissuta a Roma, forse perché in Sicilia ho una casa amatissima in cui mi rifugio appena posso. La Sicilia insomma è la mia terra, quella in cui mi sento a casa. E tanta Sicilia c’è in ciò che scrivo. È uscito quest’estate un mio romanzo che si intitola “Le Gattoparde”, e naturalmente già dal titolo vi sarà chiaro che è un romanzo che parla di Sicilia e di donne. Le Gattoparde è una storia vera, la storia tragica, surreale, malinconica e insolita della Famiglia Piccolo di Calanovella, l’eccentrica e bizzarra famiglia che si è ritirata a vivere in una villa sui Nebrodi al tramonto di un’epoca straordinaria della vita siciliana, quella a cavallo tra ‘800 e ‘900.  Avvertendo la fine di un modo di vivere, di una classe sociale, del loro mondo, Teresa Mastrogiovanni Tasca di Cutò con i tre figli avuti dal marito Giuseppe Piccolo, si rifugiò, ormai sull’orlo della rovina, a Villa Vina, creando tra quelle mura uno straordinario cenacolo. Ma Le Gattoparde vuole essere molto di più che una storia siciliana, vuole essere principalmente una storia di donne.

 Sono capitata a Villa Piccolo per caso, in una fredda e piovosa giornata di inizio gennaio, la casa era avvolta dalle nuvole, il giardino, che doveva essere stato magnifico, spoglio e abbandonato. Appena varcata la soglia ho avvertito quelle che Franco Battiato, in visita alla villa, aveva chiamato “misteriose presenze sotterranee”. Che si creda o meno a spettri e fantasmi vi assicuro che la casa ha comunque qualcosa di magico ed inquietante. Mi aggiravo per stanze che non erano mai state toccate dalla morte dei suoi abitanti, la tavola apparecchiata, i letti rifatti, gli occhiali sul comodino, il vaso da notte accanto al letto, le foto e i libri di famiglia. Ho poi scoperto nel seminterrato una straordinaria mostra di acquarelli di Casimiro, uno dei tre figli Piccolo, che dormiva di giorno e viveva di notte quando si divertiva ad evocare fantasmi e ectoplasmi o a passeggiare nel parco, dove, sosteneva, vivevano un gran numero di fate, gnomi ed elfi che poi lui ritraeva. Un luogo così non poteva non affascinarmi e stimolare la mia curiosità, perciò tornata a Roma ho iniziato la mia ricerca e ho scoperto una storia e personaggi bizzarrissimi. Soprattutto ho scoperto tante donne.

I Piccolo, per parte materna, discendevano dalla famiglia Filangeri Mastrogiovanni Tasca di Cutò, una delle maggiori famiglie aristocratiche siciliane, dove a farla da padrone erano soprattutto le donne, Giovannina, la matriarca, nonna dei Piccolo aveva messo al mondo sei figli femmine e un solo maschio. Le storie di questo gineceo, storie terribili, drammatiche, tristi ma mai banali, non possono non aver segnato le vite dei figli Piccolo, Agata Giovanna, Casimiro e Lucio, così come quella di loro cugino, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, autore de “Il Gattopardo” e figlio di Bice, la maggiore delle figlie Tasca di Cutò. Più leggevo e mi informavo e più scoprivo che l’iconografia nostrana, che vuole la donna siciliana come ubbidiente, rassegnata e sottomessa esiste solo nella nostra immaginazione, queste donne infatti, le mie Gattoparde, tutto erano fuorchè sottomesse, sofferenti certo, infelici, sfortunate, ma mai remissive e pronte a sfidare convenzioni e regole borghesi e per questo pagando sempre prezzi altissimi. Eppure queste donne non erano mai state raccontate perché il mondo, lì in Sicilia, era sempre stato degli uomini, dei Gattopardi, che tranne rare eccezioni non avevano fatto altro che dilapidare patrimoni immensi, nel peggiore dei casi o nel migliore ad assistere fiacchi e impotenti alle rovine che li circondavano, mentre le donne tentavano disperatamente di arginare le frane. È stato allora che ho pensato che queste donne meritassero di essere raccontate, meritavano che si rendesse loro una voce troppo spesso messa a tacere.

È stata questa la molla che ha fatto nascere il libro, il desiderio di ritrovare voci scomparse e mai ascoltate. Così ho immaginato che la voce narrante fosse Agata Giovanna, la maggiore dei figli Piccolo, quella restata sempre nell’ombra, silenziosa, timida e discreta, appassionata di cucina e botanica (sua la creazione del meraviglioso parco), di cui si sa pochissimo, che non aveva mai viaggiato, che non era mai stata in “continente”, che aveva conosciuto solo Palermo e Messina, che rifuggiva clamori e onori, quelli che avevano fatto sì che la casa, dopo la scoperta di Lucio come poeta, si fosse affollata di personaggi famosi, Pasolini, Sciascia, Consolo, la Cederna.

Ho immaginato dunque che fosse proprio lei a dipanare la matassa degli affetti in punto di morte, raccontando o meglio evocando le vite dolorose delle sue zie e di sua madre. Insomma ho voluto raccontare una grande saga familiare che si dipana nell’arco di due secoli sullo sfondo della Storia con la S maiuscola e dei cambiamenti che in quegli anni hanno mutato per sempre la vita del nostro paese. E ho voluto raccontare la Sicilia fastosa e miseranda, spumeggiante e maledetta, dura e affascinante di quel periodo, una Sicilia che non mi stancherò mai di raccontare e che non si stancherà mai di essere raccontata. Ho voluto raccontare la storia di una famiglia che si è illusa di poter fermare il tempo in eterno: raccontavano infatti Agata, Casimiro e Lucio, che nella loro casa sulla collina, di fronte alle Eolie, avrebbero continuato a viverci anche dopo la morte e così è stato: i boschi, il parco, i prati, le stanze di Villa Vina, riecheggiano ancora dei loro passi, delle loro malinconie, dei loro dolori, delle loro inafferrabili presenze. I Piccolo, con le loro bizzarre esistenze, hanno davvero scoperto il segreto dell’immortalità.

Stefania Aphel Barzini
Le Gattoparde
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