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Amori e pandemie, zibaldone moderno ai tempi del coronavirus

“Amori e pandemie” è un libro sui generis, un esperimento letterario, una sorta di zibaldone pop che esula dalla letteratura classica dove racconti autobiografici si intersecano a testi teatrali e a un’intervista impossibile. Anche l’editore è particolare, Il gruppo Sole24ore, che decide di dare alle stampe un libro di letteratura, lontano dai saggi economici che caratterizzano la testata anche se la prefazione è a firma di Dino Pesole, editorialista del giornale. L’autrice, Elisabetta Fiorito, è giornalista parlamentare di Radio 24, e ha già pubblicato un romanzo con Mondadori, Carciofi alla Giudia.

L’esperimento consiste nel ripercorrere un anno di pandemia, il libro è uscito il 20 febbraio del 2021, ad un anno dalla scoperta del “paziente uno”. Si inizia con un racconto autobiografico, Elisabetta Fiorito si trova nella redazione di Radio 24 durante il turno notturno, ancora non sa che quella sarà una serata particolare perché “una coppia cinese” verrà ricoverata allo Spallanzani di Roma. Da qui il racconto subisce un crescendo, l’ultima festa spensierata di compleanno appena prima delle chiusure al nord, le agenzie che incalzano, fino alla proclamazione della zona rossa in tutta Italia. 

Si passa poi a un monologo a specchio, Le due Rosarie, portato in scena a Napoli da Rosaria De Cicco, primo spettacolo dopo il primo lockdown, nel giugno del 2020. È la storia di due donne, una ristoratrice del 2020 e una sposina del 1918 che si trovano a vivere durante il coronavirus e la Spagnola. Le due donne sono legate da un filo che si scoprirà soltanto alla fine. Nella città del 1918 ritroviamo i festeggiamenti per la vittoria del 4 novembre che causano assembramenti e una recrudescenza del virus. Nel 2020 invece incontriamo una Roma spettrale, il cui centro storico senza turisti è ormai una città fantasma in cui i monumenti appaiono giganti senza vita perché nessuno può ammirare la loro bellezza.

Il terzo racconto è invece dai toni leggeri ed è quello sul referendum sul taglio del numero dei parlamentari che si interseca con le festività ebraiche che l’autrice deve preparare per celebrare in famiglia. La rincorsa all’ultima primizia per festeggiare il Capodanno ebraico, che cade all’inizio dell’autunno, e il giorno del digiuno e dell’espiazione si intrecciano con le discussioni in famiglia e a Montecitorio sul voto e sulla vittoria dei sì al referendum.

Si passa alla seconda pièce teatrale, Il virus colpevole, e si torna al raffronto tra due epoche con protagoniste due donne particolari, Virna, una trans brasiliana venuta in Italia con la tratta e Desiré, una prostituta dell’epoca fascista. Entrambi sono affette da malattie veneree, emarginate dalla società che le sfrutta ma con la voglia di emanciparsi e di trovare un futuro migliore. Desiré ambisce a diventare madama di una casa chiusa, mentre Virna vuole diventare estetista. I sogni si infrangeranno con la guerra che incombe e con il lockdown causato dalla pandemia, ma le due donne continueranno a combattere e a loro modo anche a vincere.

Arriva Capodanno ed Elisabetta Fiorito si trova di nuovo in redazione ad affrontare il turno di notte ed ecco spuntare una misteriosa signora che si piazza nello studio radiofonico per un’intervista alquanto particolare, densa di humor noir.

La terza pièce teatrale, No Vax, sembra più che mai attuale. Protagonisti sono Corrado, terrapiattista e no vax convinto, e Monaldo Leopardi, il padre del più grande poeta italiano che fu il primo a fare vaccinare i figli contro il vaiolo nello stato pontificio. Le riflessioni di Corrado che non crede alla scienza e partecipa alla manifestazione no mask a Roma si alternano a quelle del Conte Leopardi, reazionario convinto e afflitto dal figlio famoso che non riesce a comprendere.

L’ultimo racconto autobiografico, Addio Mascherine, immagina un mondo in cui le mascherine sono state completamente abolite perché il virus è stato sconfitto. L’autrice si reca al cimitero dove la madre rivive grazie ai ricordi e ai racconti legati all’utilizzo ante litteram delle mascherine.

Il libro è dedicato ai lavoratori dello spettacolo duramente colpiti dalla chiusura dei teatri durante la pandemia nella speranza di poter tornare presto alla normalità.

Di seguito pubblichiamo due estratti del libro.

Virus Colpevole

“Si accomodi e chiuda la porta”, mi ha detto l’ufficiale sanitario con in mostra il distintivo del fascio. “Bene, bene, allora la signorina ha il mal francese”, ha mormorato guardando la cartella clinica. Indossava abiti eleganti, brillantina tra i capelli, pantaloni con risvolto e scarpe duilio sotto il camice, ma i lineamenti erano grossolani. “Sto prendendo il Salvarstan, il medicinale nuovo, il 606”. “Certo, certo, ma ci vuole tempo. Vomito?”. “Un po’”. “È normale, poi passa”. “Singhiozzo?”. “No, quello no”. “Meglio”. “Muove agevolmente braccia e gambe?”. “Abbastanza”. “Allora, risponde bene alla cura”. “Potrò tornare presto a lavoro?”. “Aspettiamo un paio di giorni, può accomodarsi”.

Sono tornata nella sala celtica, passando per il reparto delle madri di famiglia. Al mio passaggio, sputavano o si giravano dall’altra parte. Ho aperto la tenda e Mimì stava facendo i bagagli. “Oggi esco!”, mi ha detto felice. “Di già? E come hai fatto? Come li hai convinti?”. “No, mia cara, sono loro che convincono noi”. Mimì mi ha abbracciato, sarebbe stato il nostro ultimo incontro, la quindicina era terminata, sarebbe andata in un’altra città. “Quindi ci separiamo?”, era un po’ di mesi che girovagavamo insieme per l’Italia. “Dai non fare così, è il nostro mestiere, ma vedrai ci rincontreremo, ne sono sicura. E mi raccomando: fai quello che ti dicono e si mette tutto a posto”.

Dopo le donne, sono iniziati ad arrivare i ragazzini e le ragazzine. Non sopporto quando piangono accompagnati dai genitori che mi guardano stupiti, probabilmente perché è la prima volta che vedono una trans dal vivo. Io sono sempre la stessa con i miei jeans e le mie sneakers di strass e l’immancabile rivista di moda. Se è inverno, magari mi metto un giubbotto di simil pelle rossa. 

Non capisco perché non si tratti questo virus come tutti gli altri, come l’epatite C. Anche per quello non c’è un vaccino, ma se ne può parlare liberamente. Mentre noi sembra che abbiamo lo stigma in fronte.

Io, trans brasiliana, nata in una favela di San Paolo, violentata a dieci anni, arrivata in Italia con la tratta, liberatami avendo ucciso con il tacco a spillo il pappone che mi sfruttava, sono colpevole di aver infettato la città e aver fatto ammalare la ragazzina di 16 anni che sta davanti a me con i jeans strappati, la gomma da masticare, i capelli bicolore in lacrime accompagnata da mamma e papà. Quand’è così distolgo lo sguardo e mi rimetto a leggere Vanity Fair.

No Vax

L’altra mattina mi sono alzato di scatto, ho capito che dovevo fuggire altrimenti mi avrebbero ucciso. Ho aspettato che gli uomini e le donne in tuta bianca fossero andati via e in un attimo ho staccato i tubi che erano collegati al mio corpo, l’ossigeno e la flebo. Mi sono alzato di scatto e vestito in fretta, compiendo uno sforzo sovraumano. Sono riuscito a uscire dalla camera da letto, ho fatto qualche passo e ho visto la mia meta, la porta bianca oltre la quale sarei stato finalmente libero.

Nella mia testa mi sono messo a correre verso la salvezza, ma in pratica dopo pochi passi il mio corpo si è accasciato, in preda al veleno che mi hanno iniettato per farmi morire, per uccidere l’ultimo eroe della resistenza umana su questa terra.

“Adesso te la devi piantare”, mi ha intimato la capa della corsia. È la più terribile, quella che controlla anche gli altri, che stabilisce i turni e il cibo di ognuno di noi. “Lo vuoi capire che hai il Covid?”. “Non esiste il Covid”, ho risposto. Lei ha scosso la testa sotto la tuta. “Domani se non migliori ti dobbiamo mettere il caschetto, vedi di fare il bravo, ne ho parlato con tua madre, al telefono”. “Voglio parlarci io”, gli ho detto. “Sei libero, hai il tuo cellulare”. “Me lo controllate”, ho risposto. Poi sono svenuto.

2 ottobre 1801, ho inoculato per la seconda volta Giacomo, Carlo e Paolina. Ho usato la materia freschissima di un villanello, figlio di una balia. In primavera ho fatto il primo esperimento, mi è sembrato l’innesto di un vaccino spurio e per questo motivo l’ho replicato ai miei tre piccoli in autunno e sono intenzionato a ripeterlo se non ottengo un risultato soddisfacente. Tengo un diario per controllare l’inoculazione di questa magnifica novità portata dall’Inghilterra e per annotare le reazioni dei miei figli. (…)

L’altro giorno ho incontrato il curato che ha cercato di istillarmi dubbi. Dicono che lo faccio per farmi bello davanti agli altri. “In fondo – mi ha accusato – bisogna capire se è lecita davanti a Dio l’inoculazione. Il vaiolo è mortale ben di rado di sua natura, quindi meglio aspettarlo che accelerarne l’attacco con l’innesto che ci darebbe una malattia certa per liberarci da una incerta”. “No, signor curato, non è così”, gli ho detto. “È stato un medico inglese a sperimentarla, si chiama Edoardo Jenner”. “Ah, bene. Meglio inglese che francese”, mi ha risposto lui. Io mi sono fatto il segno della croce e ho alzato gli occhi al cielo.

Elisabetta Fiorito
Amori e pandemie
Il Sole 24 Ore

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