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Le ragioni per cui si vive e si muore

Di Giovanni Lanzillotta

Un esame di coscienza, pubblica e personale. Questo è stato per me la lettura del romanzo di Pierluigi Vito “I Prigionieri” (Augh! Edizioni). La Storia narrata – ancora una volta una Storia in maiuscolo, come è stato per il precedente “Quelli che stanno nelle tenebre” (Robin, 2016) – ha messo in discussione la qualità del mio impegno e della mia testimonianza di cattolico (italiano), soprattutto nell’individuazione di quel limite che noi non sappiamo mai definire e comprendere o finanche oltrepassare, vivendo nel conforto dell’ordine costituito e del “dare a Cesare quel che è di Cesare”.

Il romanzo narra il sequestro dell’Ing. Giuseppe Taliercio, dirigente del Petrolchimico di Porto Marghera, avvenuto il 20 maggio del 1981 ad opera delle Brigate Rosse: una prigionia che durò quarantasette giorni, sempre incatenato a una brandina e rinchiuso in una mansarda, e che si concluse tragicamente con il suo assassinio. Dalla narrazione di questo barbaro sequestro emergono immensamente la forza morale e la libertà interiore dell’ostaggio, che sovrastano e testimoniano drammaticamente a coloro che lo vogliono in catene quanto sia folle e inutile la loro violenza e quanto siano essi, al contrario, gli atterriti “prigionieri” di uno schema che annichilisce la vita dell’uomo e che non troverà – come accadrà nella realtà – il coinvolgimento di quelle masse proletarie che avrebbero voluto vedere insorgere nella rivoluzione armata.

Ogni capitolo, dedicato a una giornata del sequestro, si chiude con una “lettera” immaginaria che – nel romanzo – Taliercio destina alla moglie ed ai figli durante la sua prigionia: esse rappresentano già un ottimo motivo, a mio avviso, per cui consiglierei la lettura de “I Prigionieri”, per la loro toccante carica emozionale e il grande arricchimento spirituale che contengono. Le missive rivolte alla moglie, dai contenuti semplici se vogliamo, di vita quotidiana fatta di relazioni, sentimenti e attenzioni familiari, ma di valori profondissimi allo stesso tempo, fanno da contraltare alla brutale, iniqua ricerca di un concreto capo d’accusa, obiettivo del “processo proletario” celebrato ai danni del direttore del Petrolchimico.

Nella contrapposizione tra la vita del protagonista-vittima e dell’aguzzino-terrorista-inquisitore, che è alla dilaniante ricerca di un motivo che possa sentenziare una drammatica condanna a morte, si assiste al processo contro l’obiettivo-simbolo (il dirigente di una grande industria) e allo stesso tempo al processo ad un certo modo di essere uomini (e, nel caso del protagonista, cristiani), ad una vita “né carne, né pesce” accondiscendente e conformista, tutto il contrario della radicalità richiesta dall’etica pubblica e dalla fede privata, così come testimoniata dalle scelte di vita di Giuseppe Taliercio. Che si staglia come l’esempio di una vita fatta carne, vissuta e convissuta con i propri simili, persone che si riconoscono come persone e non altro, non operai, o tecnici, o dirigenti, o terroristi; non categorie nelle quali restringere l’analisi, la comprensione e la volontà di cambiamento della società, ma uomini, donne, fratelli e sorelle di un’unica famiglia nella quale prendere posizione e schierarsi sempre a favore della verità.

Ci sono pagine, in tal senso, illuminanti: quando un anonimo operaio si accomoda al tavolino di una trattoria dove Fabio, uno dei sequestratori, sta mangiando dopo aver seminato volantini delle Brigate Rosse. L’anziano lavoratore racconta di Giuseppe Taliercio al giovane terrorista (riconosciuto come “uno di quelli”): “…Se un operaio si faceva male, se sapeva che c’era qualcuno che aveva bisogno, lui si presentava a casa sua. All’inizio alcuni lo prendevano per matto, altri per un malfidato che voleva controllare se davvero t’eri infortunato; e non lo facevano entrare. Poi abbiam capito che era fatto così. Che c’aveva la fissa della carità, forse dopo direttore voleva diventar santo: un bell’avanzamento di carriera! (…) El toso… così lo chiamavamo noialtri più anziani e così abbiam continuato, pure quando è diventato el sior direttore. Pareva che gli volesse bene alla fabbrica, a tutti i tubi e le valvole. E anche un po’ a noialtri.”

Il dialogo tra due persone tra loro sconosciute, ma che si riconoscono nella categoria che rappresentano, il terrorismo rivoluzionario e la massa operaia, mette a nudo l’incomprensione e l’abisso esistente tra una realtà fatta di sacrifici, persone, progetti di vita, e di contro i nichilistici, violenti, vuoti progetti terroristici degli anni di piombo. E la chiave di lettura che mette a confronto le due visioni della vita e del mondo, sta in quella frase “…c’aveva la fissa della carità, forse dopo direttore voleva diventar santo…” e in definitiva in una parola sola: la “Carità” che caratterizza l’agire cristiano, discerne gli avvenimenti, guida il cammino e le relazioni fra le persone.

Nel confronto tra il terrorista che pensa di rappresentare l’operaio, pur non conoscendone la storia, le attese e le speranze, si concentra un aspetto essenziale del messaggio che “I Prigionieri” ha trasferito alla mia esperienza di lettura. La drammaticità degli anni di piombo viene raccontata dal punto di vista dell’operaio italiano, strappato alla miseria della vita da contadino. L’inutilità della feroce violenza armata viene messa alla sbarra da un lavoratore, da uno di coloro che avrebbero voluto “liberare” dalle catene dello sfruttamento, a loro volta incatenando e uccidendo Questo sì che è il vero processo, ma alla lotta armata! E tutto questo viene mirabilmente messo alla luce dall’Autore, nella semplice e ancora una volta profondissima riflessione, come nelle lettere di Taliercio, questa volta proposta da chi nella fabbrica ci viveva e sulla quale costruiva e basava le sue speranze.    

E ci sono poi i brigatisti, ritratti con spaccati di umanità al limite della compartecipazione, per mettere in luce tutti gli elementi di “contraddizione”: sicuramente della lotta armata, ma più ancora delle singole storie personali che si scontrano contro la retta e fiduciosa speranza di un uomo mite e onesto, che fino in fondo si sforza di fare il proprio dovere; che non riconosce ai suoi aguzzini alcun diritto di vita o di morte su di lui, pertanto non si piega chiedere perdono o pietà; che arriva a interpellarli a sua volta sul loro modo di stare al mondo, sulla difficoltà di leggere i loro tempi, sulla ricerca della felicità. Non resisterà alla fine il prigioniero e porrà direttamente la domanda in un drammatico confronto col suo principale antagonista, Emilio: “Io… posso capire la sua ostilità, come pure l’ideologia che la muove, l’utopia che lei aspira a realizzare. Siamo un intralcio, io e quelli come me, lo capisco, anche se non lo condivido. Ma c’è una cosa che non riesco a capire. Tutto questo la rende felice?”. La risposta di Emilio è disperante e inesorabile: “La felicità non esiste, o se esiste è un passatempo per imboscati. Esistono solo le ragioni per cui si vive e si muore”.

Contro quelle ragioni di morte lo Stato ha lottato con delle leggi eccezionali, con delle leggi di guerra. La società civile ha sconfitto il cancro delle Brigate Rosse, che si sono ritrovate sole e abbandonate nella loro folle guerra. Ma dopo la lettura de “I prigionieri” mi sono domandato se le BR non abbiano perso la loro guerra, solo perché si sono trovate a essere militarmente meno organizzate di uno Stato, che ha reagito con altrettanta determinata strategia di guerra e dotandosi di leggi eccezionali. Mi sono chiesto: – Se la società civile, la scuola, la magistratura, la Chiesa, la politica disponevano degli anticorpi per espellere una simile malattia, una simile folle e sanguinaria ideologia, come è stato possibile che il pensiero nichilista delle BR si sia potuto anche solo minimamente diffondere? E se il sentimento comune fu davvero così fortemente schierato contro le BR, non furono tiepide le reazioni della stessa società civile e della classe politica e della Chiesa? Non hanno piuttosto delegato ad altri la loro reazione? Non è forse vero che hanno preferito armare lo Stato di leggi eccezionali e far combattere i suoi uomini in divisa, in una guerra che nel frattempo viveva anche le stragi fasciste, che a tutt’altro ordine volevano portare?

È un turbine di domande alle quali non so rispondere. Ma che è necessario porsi. E ben vengano libri come questo che ci aiutano a tenere viva e feconda una memoria capace di illuminare la nostra storia e generare un pensiero critico.

Pierluigi Vito
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