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“Fare Giustizia”, limiti e inadeguatezza della macchina giudiziaria italiana

Di Giacomo Barelli

Giuseppe Pignatone è stato uno dei magistrati Italiani più importanti nella lotta alla Mafia. Nato a Caltanissetta nel 1949 entra in magistratura nel 1974. La sua carriera, lunga 45 anni, è caratterizzata da una continua lotta alla criminalità: da Cosa nostra al clan di Buzzi e Carminati, la condanna dell’ex governatore della Sicilia, Totò Cuffaro, la svolta sul caso di Stefano Cucchi e la forte volontà di far luce sul sequestro e l’uccisione di Giulio Regeni in Egitto.

Per sette anni a Roma, a capo dell’ufficio giudiziario competente nel cuore del potere italiano, e bollato nei decenni passati come il “porto delle nebbie” guida la Procura della Capitale con inchieste che toccano la politica senza distinguo.  Nel maggio del 2019 Papa Francesco lo nomina Presidente del Tribunale Vaticano ed è lui oggi a guidare nella grande aula di giustizia allestita nei Musei Vaticani il processo in Vaticano per affari illeciti compiuti con i fondi della Segreteria di Stato, a cominciare dalla compravendita del Palazzo di Sloane Avenue a Londra.

È Uscito in questi giorni il suo ultimo libro edito da Laterza “Fare Giustizia” nel quale Pignatone, uno dei più stimati e autorevoli protagonisti del nostro sistema giudiziario, fa una lucida analisi e formula proposte di soluzione per una riforma della giustizia.

Davvero “separare le carriere di giudici e pubblici ministeri” è la condizione essenziale per la soluzione di tutti mali della giustizia italiana? Ne sembrano convinti alcuni schieramenti politici e soprattutto le Camere Penali ed è allora opportuno esaminare le ragioni che imporrebbero un simile sconvolgimento degli equilibri fissati in Costituzione», questo il messaggio lanciato da Pignatone alla Guardasigilli Marta Cartabia che si appresta a varare la nuova riforma della giustizia penale. Una riforma da evitare quindi secondo il magistrato di Caltanissetta, secondo il quale invece quelle proposte dalle Commissioni parlamentari Lattanzi e Luciani delineano un quadro largamente condivisibile.

«L’argomento principale a sostegno della separazione delle carriere delle toghe» scrive ancora Pignatone, «rimane un semplice sospetto che non trova riscontro nei dati oggettivi. Non viene invece preso adeguatamente in considerazione il serio rischio che la separazione delle carriere porti a rendere normale quella che oggi rimane un’eccezione e cioè un Pm superpoliziotto, inevitabilmente soggetto, molto più di quanto avvenga attualmente, alle pressioni dell’opinione pubblica, alle sue tendenze colpevoliste e alle sue richieste di un risultato immediato, specie dopo i fatti più gravi ed eclatanti». Allo stesso tempo anche il giudice ne risentirebbe: sarebbe più “solo” e inevitabilmente, chiosa Pignatone, «debole».

Infine, il problema più grave per l’ex magistrato di Roma del nodo “separazione carriere” riguarda la dipendenza del Pm all’esecutivo: al momento nessuno lo chiede tra i politici fautori della norma, eppure «la forza delle cose non potrebbe che spingere in questa direzione, come del resto avviene in molti Paesi europei. Non sarebbe infatti accettabile, in un sistema democratico, l’esistenza di un organo che, anche grazie al controllo della polizia giudiziaria, sia così potente e contemporaneamente del tutto irresponsabile nel momento in cui venisse meno l’attuale inserimento nell’ambito più vasto della giurisdizione».

Di riforme della giustizia si discute nel nostro Paese da decenni. E oggi più che mai un rinnovamento appare necessario, sia alla luce della crisi interna alla magistratura sia per le richieste provenienti dall’Unione europea.  Tuttavia in Italia sul tema giustizia si vive in un vero e proprio paradosso: da un lato si critica la magistratura perché occuperebbe spazi non propri, dall’altro la politica e la società pretendono che moltissimi problemi siano risolti in sede penale.

Nel libro Pignatone riflette su quale sia il modo più corretto ed efficace di ‘fare giustizia” ed alla luce della sua lunga esperienza sottolinea i limiti della macchina giudiziaria italiana e la sua inadeguatezza rispetto alle esigenze del Paese, senza tuttavia sottovalutare gli straordinari risultati che comunque si sono realizzati, in particolare nel contrasto alla criminalità organizzata.

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