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“X”, la forza di dire “stupro”. Intervista a Valentina Mira

Di Béatrice Sciarrillo

Questo non è il libro che Valentina Mira avrebbe voluto scrivere; non è il libro che avrebbe voluto che gli altri leggessero e, tra questi altri, c’è anche – e soprattutto – la sua famiglia.

Ma questo è il libro che noi abbiamo letto.

Ed è un libro forte e potente.

Ne parliamo con l’autrice.

Nella scena dello stupro, che descrivi molto dettagliatamente, emerge il particolare del sangue colore ruggine che sporca il lenzuolo. Il sangue come macchia, ma anche come testimonianza di un corpo che ha lottato, che ha provato a resistere. La resistenza è, infatti, un concetto molto importante nel tuo libro: la rivendicazione del proprio diritto a esistere. Perché se lo stupro è una “forma di morte in vita”, un trauma che ti divora e logora l’esistenza, che ti fa sentire “immondizia”, la nostra vita deve essere innanzitutto una forma di resistenza …

Questo libro è il tuo modo di opporre resistenza a ciò che è accaduto?

Visto che il tipo di commento che leggo di più su Instagram a recensioni del mio libro, X, è “non so se troverò il coraggio di leggerlo” ci tengo a dire che sì, è vero quello che dici e cioè che descrivo lo stupro dettagliatamente, per carità (la censura non è mai stata roba mia), ma non c’è un briciolo di pornografia del dolore. Avrebbe fatto male a me per prima approcciarmi così alla narrazione, e l’ultima cosa che volevo fare era provocare dolore a chi legge. Arrivando quindi alla tua domanda, cioè se X sia o meno il mio modo di opporre resistenza a ciò che è accaduto, ti dico che per me la resistenza è un concetto storico e collettivo, molto più grande di me. X è un libro che parla di stupro, di fascismo di quartiere, di precariato, di famiglia, di giornalismo e di quanto sono stronzi in quell’ambiente. Un libro in cui se avessi potuto mettere i nomi delle persone di cui parlo avrebbe fatto crollare almeno un palazzo del potere, ma non è questo il mondo in cui viviamo e ci muoviamo piuttosto come una carboneria. Tuttavia se non l’avessi scritto sapere quelle cose avrebbe fatto crollare me. La resistenza al massimo è quella che cito nel libro, quella curda, quella contro il fascismo e i fascismi. Mai l’esperienza di una singola, almeno non per me. La resistenza non è singola, tuttavia è responsabilità anche dei singoli. La resistenza è e deve essere violenta e collettiva, un libro può solo essere un mattoncino in questo senso.

Credi che, in questi casi di dolore rimosso, la scrittura sia in grado di operare un processo di catarsi dentro chi scrive, di sostituire – o affiancare – un percorso di psicoterapia?

Assolutamente no. Credo che ogni persona trovi il suo modo di stare al mondo e di convivere con le sue ferite. Nel mio caso la scrittura non avrebbe mai potuto sostituire la terapia e viceversa. Dei libri che parlano di stupro non apprezzavo proprio il finale, la “morale” per così dire: sia Io ho un nome di Chanel Miller che Fame di Roxane Gay che Lucky di Alice Seabold sono stati scritti da donne che hanno fatto corsi di scrittura in università costose in Nordamerica e che raccontano la loro catarsi nella realizzazione del sogno di scrivere un libro. Io mentre lo scrivevo vivevo in un’occupazione, e non delle migliori (benché mi farei arrestare in caso di sgombero, eh, a Roma non danno case popolari da decenni…). Ho sempre trovato agghiacciante la poca cura verso le lettrici a loro volta violentate a cui queste, per il resto straordinarie, autrici proponevano come risposta allo stupro la realizzazione personale, individualistica, capitalistica quasi, attraverso la scrittura. Io scrivevo da molto, molto tempo prima dello stupro. Chi mi legge deve sapere che il nostro lieto fine, ammettendo che ci sia, ce lo scriviamo da sole e soli e ognuno ha il suo, la mia proposta è che il lieto fine è collettivo o non è. Sennò sei tu che “hai svoltato”. Tradotto: sei diventata parte del sistema. Io con X non ci ho fatto i soldi e non ci ho sostituito né la terapia né i percorsi politici. Ho solo provato a riempire un buco narrativo. A questo si limita il mio ruolo, è solo un tassello di un cubo di Rubik che spetta a ognuno risolvere, se vuole. La resistenza la sogno, la agogno, non è alla mia portata da sola.

Tra i ringraziamenti a fine libro, ringrazi la tua famiglia per averti “concesso di dipingerla in modo peggiore di quello che è per fini narrativi”. Quanto, e in quali aspetti, la famiglia descritta nel tuo libro è affine alla famiglia in cui tu sei cresciuta?

Ho inserito quella formula perché nel libro siamo riconoscibili solo io e la mia famiglia (fratello, madre, padre). Non lo stupratore né gli altri contesti abusanti. Considero una forma di rispetto mantenere il riserbo su cosa sia stato romanzato, in positivo o in negativo, di loro. Basti sapere che il fulcro è quello. Il consenso non è qualcosa che va sbandierato solo per sé, è teoria e pratica e ho cercato di rispettare il loro anche nel libro. Non vuol dire che in romanzi futuri in cui sarà meno importante politicamente che il mio nome coincida con quello della protagonista io non mi riservi la libertà di andare più a fondo alle dinamiche familiari che conosco, ma era importante per me che le persone vicine non ne uscissero ferite. Anche grazie a questa formula rispettosa che uso nei ringraziamenti mio fratello è tornato a far parte delle nostre vite, prendendosi delle responsabilità e chiarendoci vicendevolmente delle cose, quindi è una scelta che rivendico.

Nel libro, scrivi che lo stupro che hai dovuto subire non è niente se confrontato allo stupro subito dalla ragazza francese, trovata semimorta per strada. Tuttavia, non esiste una gerarchia del dolore e dello stare male. Ogni dolore è a sé, e richiede di essere analizzato per quello che è stato e che è, anche se non è visibile, anche se non ci sono prove tangibili da presentare.

Quanto è stato difficile prendere consapevolezza della gravità estrema dell’azione subita?

Oh, ma io lo sapevo. Non è un caso che a lui, a G., lo stupratore, io la parola “stupro” l’avessi menzionata. Il problema è che alcune di noi certe cose le sanno, poi tocca che la consapevolezza collettiva su quelle cose sdogani una serie di cliché, di luoghi comuni, incistati nei millenni. E lo stupro è un tabù in Italia al punto che fino alla legge 66 del 1996 era un reato contro la morale, non contro la persona. Il #MeToo c’è stato in Nordamerica, e qua? Qua l’85% delle giornaliste, per parlare di un campo che conosco da dieci anni, subisce molestie da capi e superiori. Hai sentito di uno solo tra loro che sia stato denunciato? Io no, eppure di alcuni parlo nel libro. Sono spariti, sono fantasmi, sono vigliacchi e noi non siamo organizzate e non gli abbiamo fatto paura mai. Finora, certo.

Spesso, il nostro modo per mettere a tacere un problema – il problema – è quello di spostarlo. Nell’estate dello stupro, tu sposti il tuo pensiero su un’azione più facilmente affrontabile, ma fortemente simbolica, cioè quella di ritrovare il pupazzetto della tua infanzia e accomiatarsi da questo per dire addio alla tua adolescenza. O anche l’azione – crudele – di ferirti le gambe, ripiegata su te stessa.

È stata questa una maniera per introiettare il tuo dolore, per direzionarlo su qualcosa di più facile e, in qualche modo, farlo piombare nella sfera del rimosso?

In qualche modo la rabbia deve essere sfogata, come tutte le emozioni. La maggior parte di noi non lo fa verso l’alto perché non è possibile farlo, e allora o attacchi chi è simile a te (vedi tanti articoli di giornaliste o opinioniste che parlano di “cancel culture” o riportano posizioni infami sul femminismo) oppure, se per te essere vigliacca è meno facile che reggere il tuo dolore da sola, attacchi te stessa. A volte, poi, come è successo a me e come auspico per chi è in quella situazione, hai la fortuna o la tigna di incrociare collettività che stanno messe come te e che qualche risposta ce l’hanno. Colgo l’occasione per ricordare l’appuntamento nazionale di Non una di meno, il 27 novembre a Roma. So che ci saranno pullman da tutto il paese, è importante essere goccia per provare a farci mare, per citare uno migliore di me.

Il novanta per cento delle donne stuprate in Italia non denuncia. Perché non si riesce a trovare il coraggio di reagire?

Perché scegliere il silenzio? Non è più omertoso e violento il silenzio?

Non è il coraggio che ci manca. La Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo) a giugno di quest’anno ha condannato l’Italia perché se denunci per stupro ti mette sul banco degli imputati invece che trattarti da accusa quale sei, ti rivittimizza. Denunciare è difficile se non impossibile. Per non pensare al fatto che la maggior parte degli stupri non ha testimoni né prove, avviene tra due persone a porte chiuse. Ci viene richiesto eroismo, ci viene richiesta sventatezza, non coraggio, per denunciare. Il silenzio è omertoso, certo, ma non è il nostro, il nostro è sopravvivenza, amor proprio. Il libero arbitrio non è libero per tutte e tutti, si parte da condizioni molto diverse e pensare che le nostre siano tutte scelte libere in un sistema paritario è negare di conoscere il mondo in cui si vive.

In Transito di Aixa De La Cruz (edito dalla casa editrice Giulio Perrone), la scrittrice spagnola scrive che la differenza tra lo stupro e gli altri reati è la difficoltà stessa a nominarlo. Perché questa parola è così violenta?

È violenta etimologicamente, come suono innanzitutto. In X c’è un punto in cui ragiono di questo riprendendo e rigirando l’indimenticabile incipit di Lolita di Nabokov. Quello in cui lui fa: “Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti”. È un topos narrativo molto diffuso quello per cui il nome dell’amata, o dell’amato, suona come miele al solo pronunciarlo. In Lolita c’è un passo in più, e cioè il disturbo che ha il protagonista, un pedofilo, poi anche assassino. Per questo mi sembrava divertente rigirarlo. In X ragiono partendo da questo su quanto il suono stesso della parola stupro sia tabù, come le parolacce, ti inviti a non dirla, proprio al contrario di un nome che ispira amore. Ricorda il tabù su “mestruazioni” (assurdo che anche le pubblicità degli assorbenti dicano “ciclo” quando si sa che non è il termine scientificamente giusto). Certe parole sono macchie. Ma è solo la società intorno ad averle decise impronunciabili. Perché se le pronunci sei tu quella sporca. E invece no, col cazzo: sporco è chi ci si sente, sporco è chi lo è. X è la voglia di farsi sentire da chi non ha mai voluto sentirmi, sentirci. Perché poi, quando ti sentono tutti e tutte, se scegli ancora il silenzio e l’omertà sei tu che devi andare a nasconderti. Non io, non noi.

Ringrazio Valentina per aver risposto gentilmente alle mie domande.

Valentina Mira
X
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